ROMA – “Sono una giornalista quindi sto seguendo per motivi di lavoro le proteste in Polonia sull’abolizione della legge sull’aborto, ma in quanto cittadina e donna sono anch’io una manifestante: sono estremamente infastidita dal fatto che il mio Stato mi tolga il diritto di scegliere senza fornirmi alcun tipo di sostegno“. Joanna Makosa è una cronista di Varsavia e lavora per l’emittente radiofonica Radio Zet. All’agenzia Dire racconta le proteste degli ultimi giorni nella capitale e in decine di altre citta’ del paese, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge che consente l’aborto terapeutico. “Migliaia di persone continuano a protestare, e non sono solo donne – conferma la cronista – perché questo governo, insieme alla Chiesa e ai media vicini al partito al potere, continua a imporre limitazioni ai diritti umani e civili. Ad esempio gli omosessuali sono stigmatizzati, si registrano tante aggressioni per le strade. La gente è stanca perchè nel XXI secolo, è intollerabile che in uno Stato europeo prevalgano visioni oscurantiste e bigotte”. Stamane in parlamento la ministra per la Famiglia e le politiche sociali, Marlena Malag, ha illustrato il piano di sostegno alle famiglie “For Life”, che prevede sussidi per i figli disabili o con gravi patologie. Un modo per rispondere ai possibili effetti dell’abolizione dell’aborto terapeutico, ma per Makosa “è una vergogna”. “È un maldestro tentativo di fermare l’ondata di dissenso nel Paese” denuncia la giornalista. “I sussidi poi consisterebbero in circa 300 euro mensili, vale a dire un’elemosina”.
Secondo Makosa, abolire l’aborto terapeutico, che secondo dati ufficiali del 2019 riguardava il 98 per cento dei casi, “esporrà le donne a molte sofferenze”. La principale argomentazione del movimento che si oppone alla riforma, Ogolnopolski Strajk Kobiet, (lo Sciopero nazionale delle donne) riguarda infatti i rischi per la salute a cui ora le donne potrebbero decidere di esporsi ricorrendo alle interruzioni di gravidanza clandestine. “A ogni modo, anche prima che abolissero la legge – denuncia la giornalista – spesso i medici si rifiutavano di praticarlo oppure rimandavano l’intervento finché ormai era troppo tardi”.