ROMA – “In latino si diceva ‘persona’, è l’oggetto più iconico della pandemia, il segno di riconoscimento più diretto e immediato degli abitanti di un mondo diverso. È l’emblema del nostro arretramento relazionale, della nostra desocializzazione difensiva, della rarefazione obbligata dei contatti e di quella auspicata dei contagi”. Sembra quasi un indovinello e invece, le parole di Daniele La Barbera, professore ordinario di Psichiatria all’Università di Palermo, tratteggiano il profilo della mascherina: assoluta protagonista di un’estate italiana in pandemia, soprattutto dopo la recente decisione di prolungarne l’utilizzo, fino al 31 luglio, da parte del ministero della Salute. “La maschera ci smaschera nella nostra fragile e inconsistente illusione di sicurezza e progresso- aggiunge lo psichiatra- nelle certezze consolidate, nell’autocompiacimento di tutto ciò che abbiamo conquistato e ritenevamo inalienabile”.
Se per alcune culture, infatti, “l’uso della mascherina era piuttosto usuale da diversi anni- spiega lo psichiatra- per noi è un fatto nuovo, calato dall’alto in una condizione di emergenza eccezionale e imprevista, che ha richiesto un adattamento rapido e, dunque, certamente non facile”.
L’immediatezza con cui ci si è dovuti abituare, e “l’estraneità dei nostri comportamenti al suo utilizzo, non solo ne hanno inibito l’uso corretto, ma anche il processo psicologico che ne avrebbe dovuto favorire l’accettazione- riflette La Barbera- sia su un piano cognitivo che emotivo”. A detta dell’esperto, infatti, si è scontato “un paradosso pazzesco, condannati alla limitazione estrema degli scambi interpersonali, ancorati fissamente ciascuno al proprio habitat”, proprio “nel momento storico di massima – e anche un po’ promiscua e dispersiva – espansione dei rapporti e degli incontri, degli scambi e delle connessioni”, nell’era della “mobilità estrema, continua e irrefrenabile”.
Intanto durante il lockdown è rimasto, però, “un qualche vago e incerto spiraglio di poter recuperare, forse un domani, una piccola parte di tutto ciò che era stato abbandonato in pochi giorni”. E in quello spiraglio tutti “siamo stati messi in maschera, come a disvelare che rispetto alla malattia e alla morte, le differenze si riducono e i colpi feroci del destino non rispettano casta, censo o lignaggio”, spiega lo psichiatra. L’adattarsi a questa nuova intrusa, perciò, ha previsto “un processamento mentale che è stato per noi più complesso, e questo può giustificare l’estrema numerosità delle sue modalità di impiego,