Quando l’America scoprì il “patriota siciliano” Giovanni Falcone

Alla Quantico Fbi Academy un busto in bronzo accoglie in un giardino adiacente all’ingresso i giovani che vogliono diventare tra i più bravi poliziotti del pianeta. La colonna su cui sorge è spezzata, a raccontare un lavoro interrotto, e, a terra, vi è appoggiato uno scudo che sul quale è scolpita una bilancia, simbolo della Giustizia: il sorriso ironico di Giovanni Falcone gli affiora tra le labbra, sotto i baffi di bronzo, in una smorfia tipica che gli italiani hanno conosciuto per anni ma gli americani hanno amato prima di loro. 

Il busto, lo fece installare l’allora direttore del Fbi, Louis Freeh nel 1994 “mentre per avere una lapide commemorativa al Ministero della Giustizia, a Roma, dove svolgeva le funzioni di Direttore Generale quando venne ucciso, si dovette aspettare fino al 2002; ed a Capaci, sul luogo della strage, anche di più”, ricorda Giannicola Sinisi nel volume edito nel 2015 da Cacucci: “A Sicilian patriot. Giovanni Falcone e gli Stati Uniti d’America”, in cui, tra l’altro, vengono riportati i cablogrammi e gli scambi epistolari tra il Dipartimento di Stato e gli ambasciatori a stelle e strisce in Italia relativi all’intensa collaborazione tra il magistrato palermitano e i colleghi americani.

Se l’arco di tempo cruciale dell’incontro tra Falcone e l’America è quello che va dalla metà del 1980 al 1982, quando mette a punto la sentenza di rinvio a giudizio per Rosario Spatola +119, la seconda si affaccia nella vita del magistrato già agli inizi della sua carriera, a Lentini, in provincia di Siracusa, dove da pretore deve vedersela con un incidente avvenuto nella base di Sigonella: un aereo si era schiantato e il pilota era morto.

Falcone entrò nella base per rendersi conto di cosa fosse accaduto e notò che erano in corso diverse operazioni di volo. Rimase colpito dalle spiegazioni che il comandante della base gli diede: si trattava di manovre di addestramento effettuate ripetendo quelle dell’aereo caduto, e venivano fatte sia per consentire agli altri piloti di superare immediatamente un eventuale shock subito con la morte di un compagno in volo sia per comprendere cosa fosse andato storto nel volo finito con uno schianto. 

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“Giovanni Falcone – scrive ancora Sinisi, magistrato pugliese con che il collega palermitano ha lavorato a Roma negli ultimi anni di vita di quest’ultimo – mi raccontò questo episodio con grande ammirazione per le parole di questo comandante, e per lo stile coraggioso e serio nell’affrontare anche la più tragica esperienza della vita per trarne un vantaggio per gli altri. In fondo,

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